INTRODUZIONE

Nell'ampia distesa della pianura friulana, poco distante da Co­droipo, immersa nel verde del grande parco e gli ampi spazi aperti delle sue piazze, si scopre la villa Manin di Passariano.

Simulacro vivente di un glorioso passato, ancora capace di susci­tare emozioni, pacatamente si mostra nella grandiosità dei suoi edi­fici, nella eloquenza dei suoi portali, nel ritmo ordinato degli archi dei suoi portici, nella cui ombra sommessamente ancora riecheggiano i suoni, le dolci note, la gioiosa atmosfera dei fasti raffinati di una corte principesca.  Sono i piaceri del mondo aristocra­tico dei nobili Manin che, al sommo del loro potere, nel Settecento, ostentano la magnificenza ed il lusso delle loro immense ricchezze.

Questa volontà di affermazione ed esaltazione del loro ruolo ari­stocratico, trova corrispondenza nella ampiezza degli spazi architet­tonici della villa, che in quel secolo si moltiplicano aggiungendo alla Piazza Quadrata la Piazza Rotonda, sopraelevando il nucleo centrale e le due barchesse, sino alla amplificazione fantastica del mondo del­l'arcadia nello splendore scenografico del grande parco.

Maestoso, celebrativo, fastoso sono gli aggettivi che interpretano lo spirito che ha creato questo complesso edilizio, ma servono princi­palmente ad esprimere la grandezza e la nobiltà dei Manin, non il frutto di una progettazione unitaria, dell'ideazione di una tipologia ar­chitettonica compiuta.


Sorta  nella  prima  metà  del  Seicento  per  volontà  di  Lodovico I[1] si sviluppa e ristruttura nell'arco di due secoli, per volontà esplicita dei Manin e sotto la direzione di diversi architetti[2] nel costante intento di riformulare, a po­steriori, un concetto ispiratore coerente ed unitario che mancò dalle sue origini, e che soltanto l'intervento significativo di Domenico Rossi[3]  raggiunse.

C'è comunque un luogo che sfugge a questa osservazione critica, che risplende per l'armonia delle sue forme, l'eleganza delle linee, e l'intelligenza di un progetto, questo sì, organicamente ideato sin dalle origini come un tutt'uno omogeneo ed unitario. Questo luogo è la cappella della villa.

Congiunta attraverso la barchessa di levante, costituisce da sola il nucleo artisticamente più importante del complesso, il punto ove maggiormente si concentra e realizza lo sforzo espressivo degli ideali estetici rococò dei suoi ar­tefici.

Edificata da Domenico Rossi, che ne è anche il probabile ideatore, la cappella sorge quan­do la villa estende i bracci delle barchesse e queste vanno a lam­bire la preesistente chiesa di S. Andrea.

Solo allora, siamo nel IX decen­nio del Seicento[4], si decide l'abbat­timento della vecchia chiesa[5], ed ha inizio la progetta­zione, ex novo, di questo edifi­cio, che sarà costruito e comple­tato congiuntamente alle bar­chesse, cioè nei primi anni del Settecento. Sarà comunque que­sta l'occasione per i Manin di creare un luogo che, in termini di bellezza, realizzi quei moderni orientamenti di gusto e raffina­tezza che caratterizzano gli inizi del secolo.

 

 

 

Edificio a pianta centrale, com­posta da due semplici ottagoni so­vrapposti, richiama, per l'im­pianto strutturale, l'esempio longheniano della chiesa seicente­sca della Salute a Venezia, ovviamente senza le volute e i decori esterni che qui si riducono alle poche statue dell'a­croterio. La forma palladiana delle colonne doriche binate e timpano della facciata, e la sintonia con i suggerimenti di carattere lodoliano[6] di abolire ogni inutile ornamento, appaiono i criteri che hanno gui­dato l'architetto nella semplificazione dell'insieme[7], ancor più di quanto non fosse previsto dal disegno - progetto della raccolta di stampe conservata presso la Biblioteca Civica di Udine[8].

 

 

 

Incisione del progetto della cappella di villa Manin

 

 

 

 

Molti elementi previsti della decorazione, come gli scalini del portone principale, le finestre dell'ottagono superiore, tra l'altro og­gettivamente improponibili per la presenza della cupola interna, i pinnacoli del coronamento, e la lanterna non vengono realizzati, fa­cendo perdere alla costruzione quello slancio ascensionale che na­sceva dalla breve scalinata, e che spingeva verso l'alto il portone, e si concludeva nella lanterna, con una qual leggerezza che an­che le fine­stre avrebbero ispirato.

Non esistono documenti che certifichino la paternità del progetto architettoni­co, possiamo qui avanzare l'ipotesi che il Rossi sia inter­venuto su di un disegno già esistente[9], apportando queste semplifica­zioni a favore di una razionalizza­zione con richiami al classicismo di ispirazione palladiana[10].

                            


Sette statue in pietra tenera ornano il primo coronamento: al centro del timpano la Madonna con il Bambino, cui è dedicata la cappella, due figure femminili poggiate lungo i fianchi, i santi evangelisti ri­partiti sui quattro pilastri[11], ed il grande stemma nobiliare Manin, al

                                               

 


centro. Altre due figure femminili ed un putto, attribuibili allo stesso Merengo ed alla sua bottega, decorano l'e­legante portale d'in­gresso[12].           Entriamo dunque! Apriamo tutte e tre le porte che a sud prendono luce, e liberiamo il pavi­mento dai banchi, la­sciando che gli arabeschi rosa e le iridescenze per­lacee dei suoi marmi[13] ri­flettano la calda luce sulle tinte chiare delle pareti, e ricreeremo, ne siamo certi, quell'effetto avvolgente, un'atmosfera rarefatta, semplice ed elegante ad un tempo, voluta dal gusto raffinato dei nobili Manin.

                     

 

 

In questa chiave rococò, cioè nell'affermazione autonoma del fare poetico, di­lettevole e libero dell'artista senza gli intendimenti persua­sivi del secolo pre­cedente, dobbiamo leggere tutta la creazione arti­stica della cappella.

C'è il piacere di arrecare stupore e diletto, affi­dando all'impatto emozionale il compito di affascinare il riguardante. Per questo si serve, in modo creativo e brillante, di marmi policromi, modellati con gran maestria nelle forme geometriche le più bizzarre, o cimentandosi nei preziosismi artigianali delle eleganti cortine marmoree che nugoli di cherubini e putti trattengono sospese attorno agli altari, o ancora, strabiliando nei finti damaschi marmorei delle paraste, e scalini, o ne­gli arabeschi delle tarsie policrome dei pavimenti.

Ma su tutto è la luce ad emergere da protagonista: a volte inter­pretata quale fonte simbolica dello spiri­to divino, diviene un potente strumento di creazione plastica di spazi, si veda la profondità spaziale generata nelle lunette sopra i due altari laterali, oppure si fa forza ab­bagliante come quella che risplende dal grande occhio luminoso del­l'altare delle anime del Purgatorio, in sacrestia.

Non si deve credere che quest'attenzione per i valori estetici, de­co­rativi, neghi interesse per l'esito devozionale; diciamo piuttosto che l'artista prioritariamente si rivolge al pubblico, e dopo al fedele, la­sciando intuire soltanto attraverso un approccio di tipo intellettuale, quella nascosta regia iconografica che pur lega tutte le sue opere, e che ha un suo preciso sviluppo nell'aula e nella sacrestia. 

La chiesa è titolata alla Madonna, a lei è dedicata la cappella maggiore e i tre al­tari della sacrestia.

Il percorso iconografico, certamente ideato da qualche padre ge­suita, al cui Ordine i Manin erano molto legati, e che in quel tempo finanziavano per la rico­struzione della loro imponente chiesa veneziana, viene scandito all'interno della cappella in tappe succes­sive, tenendo conto dei temi devozionali a loro graditi: il transito di S. Giuseppe, dell'altare laterale sinistro, ove ricorre il tema della Sa­cra Famiglia, il miracolo della mula, dell'altare laterale destro, del santo fran­cescano S. Antonio[14], ed il grande tema mariano, che nel­l'aula della cappella emerge con la Madonna sull'altar maggiore, assi­stita dai santi Andrea e Lodovico. 

Nella sacrestia il tema mariano di corredentrice del genere umano si articola in forme più complesse, e si esplicita con gli strumenti più sofisticati del racconto didascalico delle pale de­gli altari prospettici della Immacolata Concezione, della Vergine Addolorata, e nel sin­golarissimo altare-monumento delle anime del Purgatorio, nel suo ruolo salvificante di Madonna del Carmelo.

Casella di testo: Pavimento dell'aula

Un'altra interessante annotazione va fatta relativamente alla sepa­ratezza dell'assetto architettonico della villa con la cappella, una spe­cie di diaframma costituito dall'ampia sacrestia, parte terminale della barchessa, ma ben separata dall'aula, dietro all'altar maggiore.

 Una sacrestia in un certo senso anomala, in cui si concentra il maggior numero di altari e di opere d'arte, riservata all'uso esclusivo della nobiltà che si nega al dialogo con il contado, che avviene indi­rettamente soltanto attraverso le grate del presbiterio.

Davvero emblematico per quell'epoca, il contrasto, il notevole stacco fra il lusso dell'apparato plastico della sacrestia, e la preghiera contrita ed insistita del credente evocata dalla lettura iconografica dell'insieme[15].

Giuseppe Torretti

L'autore della decorazione plastica dell'interno della cappella è Giuseppe Torretti[16], il più significativo scultore dei primi decenni del Settecento a Venezia[17].

Sono suoi gli altari laterali dell'aula e tutti quelli della sacrestia, e sue le quattro pale marmoree, eseguite nella bottega veneziana con l'aiuto del nipote Giuseppe Bernardi[18]. La decorazione della cappella è, infatti, tutta affidata alla scultura, anche per le pale degli altari che, in modo insolito per quel tempo, so­no anch'esse scolpite in marmo, e qui a Passariano il Torretti le realizzava per la prima volta.

La scultura è dunque il principale mezzo espressivo adottato, e s'impone a tal punto che il pittore Francesco Fontebasso, nel decoro a mono­cromo dei monumentali armadi della sacrestia, per uniformarsi all'impostazione generale, rappresenterà le figure dei dipinti a guisa di gruppo marmoreo.

Quando esegue le opere di questa cappella il Torretti ha quasi ses­sant'anni, è nel pieno della sua maturità artistica di affermato scultore.

Sono gli anni in cui la sua attività è strettamente congiunta a quella dell'architetto Domenico Rossi, e si esprime al più alto livello quali­tativo. La perfetta consonanza delle loro arti, dà loro fama e li porterà ad essere entrambi chiamati in tutto il Veneto, vedi gli imponenti la­vori di rifacimento del Duomo di Udine[19], l'erezione della cappella Manin sempre a Udine[20], quelli per la grande chiesa dei Gesuiti a Ve­nezia, e molti altri lavori in cui l'uno è complementare all'altro.

La cappella di villa Manin a Passariano, grazie a questi due artisti, raggiunge ap­pieno questa felice sintesi fra architettura e scultura, al Rossi la cura dell'am­bientazione entro cui progetta le ricche macchine scenografiche degli altari, al Torretti la realizzazione di questi enfatici contenitori, attraverso il virtuosismo della propria manualità, la ric­chezza dei materiali impiegati, ma sopra  tutto attra­verso la novità della pala marmorea.


Nella cappella, con fare più discorsivo, in sacrestia in forme più chiuse e didascaliche[21] egli affida alla lastra di marmo di Carrara, la rappresentazione simbolica ed eroica dei suoi personaggi nella diffi­cile impresa del vivere umano[22], in quella verosimiglianza e profon­dità spaziale, che solo le pale marmoree possono ricreare.Il gusto per il rilievo eseguito nella grande decorazione del quadro marmoreo, rappresenta per il Torretti il recupero classicista di un'antica tradizione veneziana risalente a Tullio Lombardo[23], ed anche al Sansovino ed al Campagna dei rilievi marmorei del Santo a Padova[24]. Da questa più lontana ascendenza egli eliminerà la frontalità ed il rigoroso primo piano dei personaggi scolpiti, raccordandoli su più piani all'interno di un fondale prospettico di sicura ispirazione ser­liana[25], elaborando così una sua originale ambientazione spaziale, di movimento e forza, che dà illusoria verosimiglianza alle figure[26].

 

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[1] (1587 - 1659) personalità di spicco della famiglia Manin.

[2] Lo studio storico-architettonico della villa non ha ancora individuato con certezza i nomi di tutti questi artisti, si possono comunque indicare: Giuseppe Benoni, Domenico Rossi, Giorgio Massari, Giovanni Ziborghi.

[3] (1657-1737), architetto, nipote del più noto Giuseppe Sardi. 

[4] Nel 1686 Francesco IV Manin chiede l'autorizzazione al Patriarca di Aquileia, Giovanni Dolfin, di demolire la preesistente chiesa per edificarne una nuova. (App. Doc. I).

[5] Ma anche questa, che si decide di demolire, era stata costruita pochi decenni prima, nel Cinquecento, al posto di una più antica chiesa che faceva parte della vasta Pieve di Codroipo (C. RINALDI, Sedegliano. Profilo storico, Udine 1967; V. ZORATTI, Codroipo. Ricordi storici, Udine 1978.), che era una delle circa trenta pievi in cui prima del 1500 si divideva la Diocesi di Aquileia. Dalla chiesa matrice di Codroipo dipendevano le numerose chiese e cappelle delle ville e castelli dell'ampio territorio (P. PASCHINI, Storia del Friuli, vol. I, Udine 1953, p. 313.) fra cui, appunto, la chiesa di S. Andrea di Passariano, filiale della chiesa parrocchiale di Rivolto, così chiamata anche nel documento da Francesco Manin quando egli chiede: "... di mutare la Chiesa chiamata di s. Andrea Filiale della Parrocchiale di Rivolto, in altro luogo prossimo a quello ove di presente si trova, ..." (App. Doc. I).  E' probabile che l'affresco della Madonna con il Bambino (1512), ora conservato presso i locali del ristorante della barchessa sinistra di Villa Manin di Passariano, provenga, appunto, da questa più antica chiesa, (G. BERGAMINI, in AA.VV., Codroipo, Codroipo 1981, p. 46; F. VENUTO, La vicenda edilizia del complesso di Passariano, in "Arte in Friuli - Arte a Trieste" 7, 1984, p. 59).

[6] Frate francescano Carlo Lodoli, teorizzava un'architettura priva di eccessi ornamentali e con soluzioni formali che rispondessero strettamente alle esigenze strutturali, secondo principi di verità e ragione.

[7] In ciò contrastando con un atteggiamento di ridondante decorazione degli interni, e la sontuosità della elaborazione plastica degli altari. Questa dualità fra l'elaborazione strutturale architettonica di impostazione classicista e la decorazione plastica dell'interno di gusto rococò che caratterizza l'atteggiamento eclettico dell'artista viene messa in luce da molti studiosi (C. SEMENZATO, L'architettura veneziana del Sei e Settecento, in "Arte veneta", XVI, 1962, pp. 209-210; B. BOUCHER, Baroque architecture in Venice, in "Apollo", 213, 1979, pp. 388-395; E. BASSI, Architettura del Sei e Settecento a Venezia, Napoli 1962, p. 227. Per una più approfondita analisi dell'attività artistica del Rossi si confronti lo studio di B. CARUSO, Domenico Rossi: un architetto fra tardo Seicento e primo Settecento, in "Ateneo Veneto", CLXXVI, 1989, v. 27, pp. 165-177. 

[8] Locco dei N.N. H.H. Co. Co. Manin di Persereano, Biblioteca Civica di Udine, Archivio Manin, s.n. Nella raccolta figurano 19 incisioni dedicate alle proposte di lavori che si intendevano eseguire nella villa, i progetti di questi lavori vengono attribuiti a Domenico Rossi. Si confronti su questa materia di studio F. VENUTO, La vicenda &, cit., p. 55; A. RIZZI, La Villa Manin di Passariano, Udine 1971, p. 18; e M. MURARO, Passariano e il rococò in Friuli, lezioni di storia dell'arte, Università di Trieste, Udine, 1972, pp. 41-44. Una parola definitiva sulla paternità di questi progetti non esiste, tanto più che questi appaiono appartenere a due architetti ed a due incisori diversi, così da poter distinguere un primo nucleo di disegni progettato da un abile architetto, ed un secondo nucleo, meno preciso, soprattutto relativamente alla sistemazione del giardino. Francesco Manin nel chiedere, nel 1686, al patriarca di Aquileia, Giovanni Dolfin, l'autorizzazione di demolire la vecchia chiesa, presenta il disegno della nuova: "... e di fabricare una nova Chiesa più ampia, e più decorosa, come dal disegno, che vi pone sotto gli occhi i." (App. doc. I), potrebbe trattarsi dello stesso disegno che compare inciso nel foglio 3 di questa raccolta, ma allora si dovrebbe escludere la paternità di Domenico Rossi che non risulta essere in quel momento al servizio dei Manin. La materia è controversa e purtroppo neanche lo studio più recente di Martina Frank riesce a sciogliere questi interrogativi, cfr.: M. FRANK, Virtù e Fortuna. Il mecenatismo e le committenze artistiche della famiglia Manin tra Friuli e Venezia nel XVII e XVIII secolo, in "Memorie dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 65, 1996.

[9] Come farà qualche anno più tardi per la cappella Manin di Udine, la cui facciata è  quasi certamente ideata da Giuseppe Pozzo (1645-1721), cfr. P. GOI, Giuseppe Torretti nella cappella Manin di Udine, in Restauro nel Friuli Venezia Giulia, Pordenone 1990 (2), pp. 14-23;  E. BASSI, Architettura del Sei &, cit,, pp. 211-212. Se si confrontano le due cappelle balza agli occhi la differenza di stile delle due fabbriche, anzi questa di villa Manin appare più "moderna" nel senso di interpretare una vocazione razionalista, antibarocca, mentre quella di Udine, realizzata dieci anni più tardi, è ancora dichiaratamente barocca. Diciamo che a Passariano è più avvertibile l'orientamento del primo Settecento verso un recupero del classicismo palladiano, come negli esempi veneziani di Giovanni Scalfurotto (1690 c.-1764) della chiesa  dei Santi Simone e Giudea (1718-1738), o di Giorgio Massari (1686c.-1766) nella chiesa dei Gesuati (1726-1743), e quello più tardo di Tommaso Temanza (1705-1789), nella chiesa della Maddalena (1760-1778) a Venezia, ove è più esplicito il riferimento classico dei maestri del passato del suo capolavoro Semplice e regolare. Le parti esterne corrispondono esattamente all interno e le proporzioni sono musicali , come lui stesso scriverà; G. ROMANELLI, Tommaso Temanza, scheda del Catalogo della mostra "1780-1830 Venezia nell'età di Canova", Venezia 1978, pp.20-21.

[10] Non deve stupire questa capacità di adattamento del Rossi nell'operare indifferentemente su disegni ed idee altrui a favore dei desideri della Committenza, questa duttilità rispondeva al suo temperamento, come sottolinea il Temanza: "Fece molti denari trafficando marmi di Carrara; fu molto industrioso per arricchirsi; tutte le opere più lucrose erano sue". (E. BASSI, Architettura del Sei &, cit., p. 228).

[11] Il cattivo stato di conservazione rende difficile l'attribuzione di queste statue, eseguite probabilmente dalla stessa bottega che ha scolpito le statue esterne di coronamento della villa, cfr. M. Frank, Virtù e Fortuna &, cit, p. 47.   Il confronto stilistico da solo è scarsamente sufficiente ad individuare l'autore di opere purtroppo oramai prive di attributi di superficie ma, in questo caso una certa consistenza plastica e la fitta trama di linee che solcano la pietra ci fa azzardare l'attribuzione a Pietro Baratta,  compagno del Torretti, del Rossi e dello Scalfurotto,  in quel famoso viaggio che li vide assieme a Roma. Nel confronto si possono tener presente le figure del Mausoleo Brancoli di Cison di Valmarino (C. SEMENZATO, Lo scultore Pietro Baratta, in "Critica d'Arte" 1958, p. 152). Hans Tietze in un suo articolo, scrivendo della cappella Manin di Passariano, in modo sbrigativo fa il nome di Pietro Baratta quale possibile autore di un S. Andrea, che si deve escludere essere lo stesso dell'altar maggiore, riferendosi probabilmente ad una di queste statue esterne (H. TIETZE, Udine im achtzehnten Jahrhundert I: Architektur und Skulptur, in "Zeitschrift fur Bildende Kunst",  N. F. XXIX, H. 12 (1918) p. 250).

[12] Queste tre statue differiscono nello stile, oltre che nel materiale, da quelle dell'acroterio; pur essendo difficile lo studio date le non perfette condizioni delle superfici lapidee, si può azzardare l'attribuzione allo stesso Merengo, ed alla sua bottega, in considerazione di alcune consonanze che accomunano i lavori dell'altar maggiore con quelli del portale: il velo sul capo, l'ovale dei volti, le dita affondate nel panneggio, che appare spesso e bagnato.

[13] A differenza di altri manufatti simili a questo, come la pavimentazione ai Gesuiti ed agli Scalzi di Venezia, del presbiterio del Duomo e della Cappella Manin di Udine, qui a Passariano siamo in presenza di un pavimento che conserva un ottimo stato di brillantezza e saturazione cromatica, che deve attribuirsi alla manutenzione che qui viene periodicamente eseguita. Non è una cosa da poco, perchè questo ci riporta un preciso ed autentico effetto cromatico di un manufatto che, oltre ad assumere rilevanza per un interno, ci ricrea quell'effetto atmosferico di un ambiente che negli altri siti citati, per varie ragioni (umidità, abbandono), più non riproduce. Per questo pavimento si è adottata un'antica e nobile tecnica realizzata con larghe lastre di pietra d'Istria su cui vengono inserite delle tarsie marmoree di differenti tonalità di rosso, secondo un disegno a racemi probabilmente fornito dallo stesso architetto Domenico Rossi. Per riferimenti alla pavimentazione simile a questa della Cappella Manin di Udine si confronti G. BISCONTIN - G. LONGEGA - T. PAGANI - T. PERUSINI DE PACE - P. SPADEA RODA, I paramenti lapidei della Cappella Manin di Udine  - Materiali - Tecnologia - Conservazione, in "Restauro nel Friuli Venezia Giulia", Memorie del Centro Regionale di Restauro, Pordenone, (2), 1990, pp. 132-147.

[14] Molto caro anche ai Manin, e probabile riferimento a quell'Antonio Manin che nel 1578 acquistò da Valenzo Valvasson la Gastaldia di Sedegliano ove appunto era Passariano. L'effige del Santo è posta anche nella cappella Manin di Udine in un rilievo sul piedistallo della Madonna.

[15] Il dramma del sacrificio divino nell'altare del Crocefisso, affinché il genere umano venga riscattato dal peccato originale, a sua volta descritto nei monocromi dei due armadi, e l'invocazione ripetuta dei tre altari, alla Madonna Immacolata, Addolorata e del Carmelo (Porta del Cielo, come si legge nel cartiglio), per  ottenere il suo intervento di salvezza dalle fiamme del purgatorio, così realisticamente scolpite.

[16] Nasce a Pagnano di Asolo il 29 agosto 1664 e muore a Venezia il 13 dicembre 1743. Cfr: G. VIO, Giuseppe Torretti intagliatore in legno e scultore in marmo, Arte veneta XXXVIII,  1984, p. 209; P. ROSSI, Su alcune sculture settecentesche della chiesa di San Stae, "Arte Veneta" XLI (1987), pp. 204-209; M. Frank, Virtù e Fortuna &, cit., pp.131-132.

[17] Il Vio ci informa che dal 1706, il Torretti andò ad abitare in una "Casa e bottega da scultor sopra l'acqua", nella parrocchia di S. Marina.

[18] Figlio della sorella, nato a Pagnano di Asolo nel 1694, muore a Venezia nel 1774, erede della bottega dello zio, accoglierà nel 1767 come garzone il giovane Canova, (P. GOI, I Torretti, Venezia 1992, pp. 10-13). Nel 1724 si annotava alla carta 113v del  "Giornale delle spese fatte dalla famiglia Manin per diverse chiese": "Al nipote del Torretti per giornate tre nel ritorno di Persereano £. 13:10". Cfr. App. Doc. "Giornale" c. 113v.

[19] C. SOMEDA DE MARCO, Il duomo di Udine, Udine 1970.

[20] A. FORATTI, La cappella Manin in Udine, in "Le Vie d'Italia", XXIX, 10, 1923, pp. 1117-1122; P. GOI, Giuseppe Torretti &, cit.,  pp. 9-63.

[21] Qui a Passariano egli va sperimentando tre tipi di rappresentazione per le pale marmoree che si possono ripartire così: di carattere pittorico (il transito di S. Giuseppe), prospettico (il miracolo della mula), e narrativo (le pale dell'Immacolata e dell'Addolorata), in sacrestia.

[22] C. SEMENZATO, Giuseppe Torretto, in "Arte Veneta", XVIII, 1964, p. 132.

[23] Vedi la pala marmorea della "Incoronazione della Vergine" nella cappella Barnabò della chiesa di S. Giovanni Crisostomo, o i pannelli esterni della Scuola grande di S. Marco, a Venezia, cfr. C. SEMENZATO, Giuseppe Torretto & cit., pp. 123-134; P. GOI, Giuseppe Torretti &, cit., pp. 9-63.

[24] Si vedano i rilievi che illustrano la vita di S. Antonio alle pareti della Cappella dell'Arca della Basilica del Santo, a Padova.

[25] Come suggerisce il Goi, cfr. EAD., Giuseppe Torretti &, cit., pp. 9-63.

[26] Come riuscirà a fare più compiutamente nelle quattro pale della cappella Manin di Udine.